domenica 13 luglio 2014

Donato

L’augustale Quadraziano, corrector Tusciae, sedette in tribunale nella città di Arezzo impugnando l’ultimo editto di Diocleziano. Il vescovo Donato fu condotto alla sua presenza.
Busto reliquario di san Donato - sec. XIV
“Vescovo… cos’è un vescovo?”
“E’ il padre dei cristiani, che li esorta e li corregge”
“Dunque sei cristiano”
“Gesù Cristo è il Signore”
“I nostri signori sono i clementissimi Augusti, Diocleziano e Massimiano Erculeo”
“Loro sono il passato. Gesù Cristo è il futuro”
“Allora è vero che voi cristiani rifiutate di riconoscere l’autorità degli Augusti e la religione tradizionale”
“Quali sono gli ordini dei tuoi signori?”
“Che tu offra sacrifici agli Dei immortali”
“Lo facciano pure quegli infelici che non credono in Cristo figlio di Dio”
L’augustale Quadraziano s’adirò.
“E’ un sovversivo e pronuncia parole di rivolta! Che la sua bocca venga percossa con una pietra!”
Un soldato eseguì l’ordine, con forza, e la barba bianca del vecchio Donato s’arrossò di sangue. Ma il vescovo sfidò l’augustale.
“Quello che mi fai, io l’ho sempre desiderato”
“Secondo questo editto degli Augusti, se non sacrificherai agli Dei ti farò bruciare. Portate qui un tripode e quella piccola statua della dea Giunone”
Donato restò in silenzio.
Figurazione seicentesca
del Patrono di Arezzo
“Questa è Giunone, la madre dei viventi, che i tuoi antenati Etruschi chiamavano Uni. Le erano molto devoti, come sai, e le fecero costruire il grandioso tempio che domina Arezzo da levante. Il tuo Dio viene da fuori, dall’oriente, non ti appartiene. Giunone invece è la Storia tua e di tutti noi: non rinnegarla e offri il sacrificio, se vuoi vivere”
Donato sembrò pensarci, ma poi disse: “Giunone è il passato e non c’è più. I tuoi dei sono soltanto demoni, fantasmi che svaniscono al nuovo giorno, e con loro sparirai anche tu e il tuo potere”
“Portatelo via!”
“Dunque non mi fai bruciare?”
“Che sia ricondotto in cella!”
Rimasto solo, l’augustale Quadraziano rifletté sulle minacce di quel vecchio pazzo, e le trovò vane e assurde. Pure lo turbava una strana inquietudine, una sottile paura che non voleva ammettere ma che gli cresceva dentro. Alla fine strinse nel pugno l’editto e prese la sua decisione: Roma e le sue tradizioni andavano difese.
Poco dopo, nella segreta dov’era rinchiuso, la spada del boia spiccò la testa del vescovo Donato.
Era la mattina del 7 di agosto del 1057 ab Urbe condita, o, come dicevano i cristiani, dell’anno 304 dalla nascita di Cristo.
Appena nove anni dopo Costantino fece un sogno e la Storia cambiò. Giunone prese per mano gli altri Dei romani e li condusse nell’olimpo dei ricordi.

Nanni Cheli - luglio 2014
liberamente tratto dalla 'Passio Donati' - sec.VI
in A. Tafi, I vescovi di Arezzo, 1986, Ed.Calosci, Cortona, pagg.14-19

martedì 3 giugno 2014

L'8 settembre

Luigi detto Gino, otto anni appena compiuti, era il più piccolo e seguiva la banda di bricconi zampettando nei pantaloni corti, alti in vita, rattoppati e tenuti su da bretelle di corda. Sulle esili spalle poggiava una canotta lisa, troppo grande per la sua magrezza. Niente scarpe, ma i capelli ben pettinati con la divisa dritta, perché “fuori si va in ordine”, gli ripeteva sempre la mamma.
Dopo aver passato le ore più calde stravaccati all’ombra d’un olmo su al Prato, in serata era partita la caccia all’Angiolina. Scopo: dimenticare l’unico tozzo di pane mangiato quel giorno, e divertirsi a spese della mitica Sputaci, una stracciona oltre la cinquantina, un tempo piacente ed ora ufficialmente ospite del Campo Profughi. In realtà preferiva dormire su un sacco di paglia buttato per terra all’aperto, magari sotto i Portici, incurante del clima. Per fumare raccattava le cicche ancora accese e per mangiare chiedeva avanzi nelle bettole.
Giochi in Piazza Grande - foto di Mario Paolucci (Paomar)
“Che c’è de nòvo?” chiedeva entrando.
“Dice il Gósto che facevi la puttana”
“Sìe, lavoravo con la su’ mama”.
Quella sera per le vie d’Arezzo c’era movimento. Capannelli in Piazza Umberto e al Canto de’ Bacci, gruppetti che discutevano, donne alle finestre.
La trovarono che veniva giù per la discesa tra le Torri, in Colcitrone, e le fecero cerchio intorno: “Angiolina, ce la fai vedere?”
“Chiedetela alle troie delle vostre sorelle”.
Uno da dietro fece per sollevarle il gonnellone nero, ma lei furiosa roteò l’ombrello. Gli altri lo schivarono e la botta la prese il Gino, dritta sullo zigomo. Finì per terra tra gli schiamazzi.
“Bestie, delinquenti!” Brandiva l’ombrello per la punta.
Poi cominciò a sputare, proiettili umidi, potenti e precisi, e fu il segnale della fuga. Corsero via ridendo sguaiati: “Sputaci! Sputaci!”
Si voltò verso il Gino rimasto per terra e sputò pure a lui. Un grumo giallastro lordò la canotta. Poi tornò sui suoi passi imprecando contro i preti e l’infanzia.
In Borgunto una donna aveva messo la radio sul davanzale e s’era adunata gente.
“Il Governo Italiano” gracchiò l’apparecchio, “riconosciuta l’impossibilità…”
“E’ Badoglio” disse uno, “zitti!”
L’Angiolina s’aprì un varco a ombrellate e s’allontanò verso Piazza Grande imprecando contro Badoglio.
“…ha chiesto l’armistizio al generale Eisenhower…”
“E’ finita!” urlò un vecchio. “La guerra è finita!”
“Finita” ripeterono altri, increduli e frastornati.
Intanto il Gino s’era rialzato e aveva deciso di tener dietro alla Sputaci, a distanza, per veder dove andasse.
Sentì la radio e le grida. Vide gente correre chiedere applaudire abbracciarsi ridere e saltare.
“Se è finita, anche il babbo tornerà a casa”, pensò, e prese la corsa per avvertir la mamma. Si fermò quasi subito, però, all’angolo di Piazza San Francesco. Una camionetta e due camion militari irruppero rombando nella piazza e ne scese una compagnia di Tedeschi che si schierarono in fila e sull’attenti.
Il Gino li guardò allibito, poi si toccò lo zigomo gonfio per l’ombrellata della Sputaci e si mise a piangere: la guerra non era finita affatto.
Nanni Cheli - giugno 2014 

lunedì 5 maggio 2014

La fuga

In quel settembre del 1499 un’estate infinita stendeva la sua cappa sulla piana, affogando nell’afa il campo fiorentino che assediava Pisa. Mosche e zanzare avevan portato le febbri coi miasmi delle paludi. Prima della fine d’agosto parecchi soldati giacevano malati e diversi eran già morti.
A quel tempo non ero certo una signora e infatti mi trovavo nel campo, per il sollazzo degli assedianti.
Gli occhi sbarrati di Vitellozzo fissavano le velature del padiglione; il volto, già brutto di suo, era stravolto dagli attacchi di quartana; le sue gambe penzolavano molli dal saccone su cui era disteso, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Solo le dita parevano aver forza, insistenti nel tormentar le nostre carni.
Eravamo in due, nude, e lo lasciavamo fare, incapaci d’ingoiare il ribrezzo.
Delirava: “Dove sei, dannata fortuna!? Torna qui, volubile donnaccia!” Un brivido gli corse per il corpo: “Avanti, bombardate! Tirate giù quelle maledette mura!”
La notte di san Lorenzo lui e suo fratello Paolo avevan preso il forte di Stampace, ma le mura resistevano. I reggitori di Firenze volevano Pisa, subito, e i Vitelli erano i migliori Capitani di Ventura sulla piazza. Ma le mura resistevano, e i soldati si ammalavano.
I Commissari fiorentini li pungolavano. Ogni giorno chiedevano perché non si assaltasse.
“Non lo vedete da voi?” rispondeva Paolo stizzito.
Poi la quartana aveva messo a letto Vitellozzo e a Firenze cominciarono a circolar voci su un accordo segreto tra i Vitelli e i Pisani. In breve si parlò di tradimento e Paolo fu arrestato.
Il malato tossì. Una mosca si nutriva all’unto del suo sudore.
“Messer Vitellozzo, dovete venir con noi!”
Il Commissario si piantò a piè del letto e ci scacciò con un cenno. Sollevate da quel supplizio, andammo a rannicchiarci per terra.
Accanto al Commissario quattro soldati. Un passo indietro Tarlatino, fido compagno di Vitellozzo, gli faceva cenno di non andare, e incrociava i polsi ad indicar la sorte del fratello Paolo.
Vitellozzo tirò fuori un fil di voce: “Vedete come la quartana m’ha ridotto”
“C’è un carro pronto”
“Mai!” asciugò con la manica un filo di bava dal lato della bocca. “Sono il Comandante di questo campo. Verrò, ma cavalcando, dovessi morire. Lasciate che mi vesta”
“Fatelo!”
“Da solo”
“Sia. Son qui fuori, ma sbrigatevi!”
Uscito il Commissario, Tarlatino sollevò di peso Vitellozzo, corse verso il fondo del padiglione e ne tranciò la tela col coltello. Un’occhiata fuori, e sparirono.
Un attimo dopo il Commissario riapparve, notò lo sbrano nella tenda e bestemmiò. Vitellozzo gli era sfuggito: nudo, buttato di traverso alla sella, Tarlatino lo stava portando in salvo a Pisa.
Nel padiglione eravamo rimaste sole. L’Adele strisciò a recuperare le nostre vesti, e mentre s’infilava la sua mi toccò: “Su, torniamo alla tenda delle donne”.
Crollai le spalle. Mi tirò per un braccio, ma le feci  cenno di no. Muta le dissi basta, me ne vado, scappo anch’io. Poi corsi via con la veste in mano.
“Maria...”
Qualche giorno dopo, a Firenze, Paolo Vitelli venne decapitato.

Nanni Cheli - maggio 2014

lunedì 28 aprile 2014

Il Pulezza

Ascoltava seduto sul tallone del piede buono, mentre ciondolava la gamba storpia e s’avvinghiava con un braccio alla spalliera della sedia.
Nell’affollata sala del Palazzo Comunale tutti conoscevano il Pulezza, mendicante sporco zoppo e ridicolo. Quello non era certo il suo posto, ma nessuno s’era preso la briga di cacciarlo.
Il sole, quella sera di metà giugno del 1289, accendeva le dorature degli stemmi dipinti sulle pareti, ma lui era l’unico a goderne, in una adunanza triste fino alla disperazione. Gli Anziani avevano convocato il popolo, chiunque volesse, perché in gioco c’era il destino della città. Presiedeva Ildebrando Girataschi, un nobile decaduto che chiamavano Giratasca, senza che vi fosse spregio in quell’epiteto. Da giovane aveva combattuto a Montaperti e n’era tornato senza una gamba, guadagnandosi a vita il rispetto di tutti.
Da alcuni giorni, da quando cioè il vescovo Guglielmino aveva mosso l’oste aretina verso Campaldino, lui era divenuto la massima autorità, tra le mura.
A Campaldino c’era stata la disfatta ed ora i Fiorentini vincitori venivano a prendersi Arezzo.
“Non c’è tempo per il pianto delle vedove” disse il Giratasca a quell’assemblea di teste chine. “Dobbiamo decidere se trattare la resa o difendere la città fino alla morte”.
Dalla sua posizione contorta, il Pulezza chiese la parola.
“Io dico di resistere”. Qualche testa si rialzò.
“Meglio morti che servi!” proclamò con enfasi grottesca. Un brusio d’approvazione serpeggiò nella sala.
“Ma non dite sciocchezze!” Tarlato, dei Tarlati di Pietramala, tra i pochi nobili sfuggiti alla mattanza di Campaldino, si rivolse furibondo al Giratasca: “Con che diritto si fanno parlare gli straccioni? È con loro che difenderete la città?”
Il popolo tornò serio e muto. Il Giratasca replicò duro: “Rendiamo onore al vescovo e ai cavalieri morti a Campaldino, ma chi ha perso non dovrebbe alzare la voce”.
Di nuovo il Pulezza chiese la parola: “Io son figlio di nessuno: mia madre morì nel darmi vita e quanto al padre, nessuno sa chi fosse. Così chiunque mi lancia un tozzo di pane può esser mio padre, e dunque son figlio d’Arezzo. Per questo ho diritto a parlare”. Si contorse sulla sedia: “Vecchi, donne e ragazzi difenderanno la città e il nobile Tarlato ci guiderà”.
Il nobile Tarlato s’alzò di scatto, torvo. Poi sbottò: “Pazzi!” e si fece largo verso l’uscita.
Ippolita gli si parò davanti sulla soglia. Campaldino s’era preso il suo uomo, e lei teneva un bambino in braccio. Non disse niente, ma i suoi occhi parlarono per lei e il Tarlati si vergognò d’essere scampato alla sconfitta. Serrò i pugni, si voltò e grugnì: “Vi pentirete di questa decisione. Domattina all’alba voglio tutti al Prato della Giustizia. Organizzeremo le difese e nessuno dormirà finché non avremo rimandato a casa i Fiorentini”.
Uscì evitando d’incontrare lo sguardo di Ippolita, e il brusio del popolo s’attaccò a quel filo di speranza.
Il Giratasca lanciò un’occhiata di gratitudine al mendicante e costui chiese a voce alta: “Qualcuno ha un tozzo di pane per il Pulezza?”.
Nanni Cheli - aprile 2014
Liberamente tratto da un'opera di Guido Cherici e da "Ruga Mastra libro secondo", Seneca Ed., Torino 2008

domenica 6 aprile 2014

Il ringhio dei botoli

Dopo una notte di pioggia battente, l’alba del 4 di giugno del 1502, un sabato, portò il sole sulla  fame di Arezzo, e gli sgherri a casa di Nerone.
Lo condussero in catene davanti al Commissario fiorentino, che lo accolse con un “Botoli ringhiosi!” sibilato a mezza voce. Parlava con lui, il Commissario, ma si rivolgeva a tutti gli Aretini: “Vi ribellate, ma io vi domerò. Fuori i nomi dei congiurati. Subito!”
Il Palazzo dei Priori
Nerone non rispose e fu chiuso nelle buie segrete del Palazzone, nella Cittadella fortificata da cui i Fiorentini dominavano Arezzo.
Si sentì perso. La congiura, scoperta per la delazione d’un traditore, era naufragata nel temporale di quella notte. Non avrebbe più visto la luce del sole, né accarezzato più le messi mature dei suoi campi.
Poi la campana suonò, forte, imperiosa. Gli Aretini uscirono dalle loro case riempiendo le piazze, per scoprire increduli che le Porte erano state chiuse: il Commissario aveva imprigionato l’intera città.
Le domande s’incrociavano nervose: “Come mai? Che succede? Hanno davvero arrestato Nerone? Perché?”
Nessuno aveva risposte, finché un prete saltò su un carro davanti alla Porta sbarrata di Santo Spirito, e arringò il popolo: “E’ per i grani! Ci vogliono affamare! Nerone tentava d’impedire che ci togliessero altro pane, e l’hanno rinchiuso. Liberiamo Nerone!”
“Nerone è un traditore” affermò il Commissario davanti ai Priori riuniti. “Chi ha fatto suonare la campana? Rimandate a casa la gente. Subito!” Ma non aveva armati sufficienti ad imporre la sua volontà.
“Portatecelo qui” propose il Gonfaloniere messer Lambardi, cittadino in vista. “Se è vero lo faremo parlare e il popolo di calmerà”.
Quando lo prelevarono, Nerone pensò che fosse per la forca, e invece lo condussero al Palazzo tra due ali di folla che reclamava la sua libertà.
“Ribellatevi!” gridò. “Mostratevi uomini!”
La moltitudine assalì gli sgherri e tolse Nerone dalle loro mani, mentre di sopra, nel salone, il Gonfaloniere faceva prigioniero il Commissario. “Le chiavi delle Porte. Subito!” gli intimò.
Il cavallo nero inalberato
“Arezzo è libera!” gridò il prete saltato in groppa ad un cavallo scosso.
“Libertà! Libertà! Pane! Pane!” urlava la massa.
La campana suonò mezzogiorno. Arezzo era tornata libera dopo più d’un secolo.
Seguì un pomeriggio d’euforia, di saccheggi e di vendette, finché a sera il vento della ribellione si placò e Nerone si ritrovò solo nella vasta sala d’armi del Palazzo, a chiedersi cosa sarebbe successo l’indomani.
Girovagò tra vecchie spade, vessilli sbiaditi, cotte di maglia arrugginite, elmi non più indossati da decenni. Sollevò il coperchio d’un cassone e ne trasse una sopravveste da battaglia che era stata bianca. Sotto il cavallo nero inalberato, orgoglioso simbolo della libertà aretina, lesse un motto latino:
A cane non magno saepe tenetur aper.
Anche un botolo può tenere a bada un cinghiale.
Lentamente la indossò, e uscì per tornarsene a casa. Nessuno, si disse, gliel’avrebbe più tolta. Sulla piazza gli ultimi capannelli commentavano i gran fatti della giornata: quel sabato i botoli aretini avevano ringhiato, e il cinghiale fiorentino, impaurito, s’era rinchiuso in Cittadella.

Nanni Cheli - aprile 2014


giovedì 27 marzo 2014

Un blog di racconti brevi - lavori in corso

Un nuovo blog di racconti sta nascendo. Un punto d'incontro, un raccoglitore di storie, brevi, brevissime, pillole di fantasia, buone prima di dormire, ottime insieme alla merenda, o dopo pranzo, o quando vuoi. Piacevoli sempre, banali mai. Un break veloce che ti dice chi sei, chi non sei, chi potresti essere, da dove vieni, dove andrai, e ti fa conoscere i luoghi in cui vivi.
Perché l'idea per chi vorrà regalarci i suoi racconti è solo questa: raccontare se stessi e il mondo vicino, magari piccolo ma unico, riconoscibile anche dentro il mondo grande, globale.
Mi piace la storia locale, quella che mi raccontano le pietre antiche dei borghi, le strade e i sentieri, i monumenti e le vecchie case, perché mi ci riconosco. Ma si accettano racconti su qualsiasi cosa l'autore si riconosca.
Racconti da botoli, piccoli cani spesso costretti a ringhiare per farsi rispettare. Botoli però che sappiano tenere a bada i cinghiali, non abbiano paura delle sconfitte ed anzi ne prendano forza.
Vediamo cosa ne uscirà.
Siete scrittori o volete provarci? Conosciamoci. Mandatemi un breve profilo e le vostre storie.
Ci costruiremo insieme un pubblico di lettori e saremo noi i primi nostri lettori.
Unica regola tecnica, per ora, la brevità: diciamo 500 parole come limite, più o meno una pagina: un espresso, concentrato e buonissimo, invece d'un caffè lungo e scialacquato.
Unica regola per il lettore: leggi gratuitamente, commenta, critica, passa agli amici i racconti che ti piacciono, ma per favore cita sempre l'autore e il blog! Settimo non rubare.
Per cominciare leggetevi "Il ringhio dei botoli". Aspetto i vostri commenti.
La nostra e-mail: noibotoliringhiosi@mail.com